IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO 
                          (Sezione Seconda) 
 
    Ha pronunciato la presente 
 
                              Ordinanza 
 
    sul ricorso numero di registro generale 1997 del  2012,  proposto
da: 
      Lucarini Giuseppe, Pitorri  Roberto  e  Giuliani  Marcello,  in
proprio e in forza di procura speciale per conto dei signori Giuliani
Giuliano, Giuliani Concetta, Giuliani Gabriella,  Lucarini  Concetta,
Lucarini  Maria,  Catalfano  Antonino,  Catalfano  Lorena,  Catalfano
Claudia, Pitorri Gabriella, Cianciosi Anna Maria, Cianciosi Giuseppe,
Cainciosi Assunta, Cilli Enrico, Cilli Danilo, De  Amgelis  Giovanni,
De Angelis Cristiano, De Angelis Daniela,  De  Angelis  Patrizia,  De
Angelis Domenico, De Angelis Stefania, Tamburini  Attilio,  Tamburini
Alessandro, Bencivenga Alvaro, Bencivenghi Mario, Camilloni  Silvana,
Camilloni Vittorio, Camilloni  Remo,  Camilloni  Danilo,  Benvivenghi
Bruno, Bencivenghi Renato, Angeloni Luisa, Angeloni Anna, Del  Bianco
Lidia e Giuliani Silvana,  tutti  rappresentati  e  difesi  dall'avv.
Alessia Guerra, con domicilio eletto presso lo studio  della  stessa,
in Roma, via Kenia n. 16; 
 
                               Contro 
 
    Roma Capitale, in  persona  del  Sindaco  p.t.,  rappresentato  e
difeso  dagli   avv.   Umberto   Garofoli   e   Americo   Ceccarelli,
elettivamente domiciliato presso gli uffici, in Roma, via del  Tempio
di Giove n. 21; 
 
                         Per l'accertamento 
 
    dell'illegittima  occupazione  da  parte  del  Comune   di   Roma
dell'area di proprieta' dei ricorrenti; 
    Per la condanna dell'amministrazione comunale alla  riduzione  in
pristino; 
    Nonche' per il risarcimento dei danni conseguenti all'illegittima
occupazione dell'area stessa nonche' per equivalente per  la  perdita
definitiva del bene  da  liquidarsi  secondo  il  valore  del  libero
mercato  ad  oggi,  previo  esperimento  della   consulenza   tecnica
d'ufficio  per  determinare  il  valore  di  mercato  da   attribuire
all'area; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  19  novembre  2014  la
dott.ssa Maria Cristina Quiligotti e uditi per le parti  i  difensori
come specificato nel verbale; 
    1 - I ricorrenti deducono in punto di fatto che: 
      sono ancora attualmente proprietari, tra le altre,  di  un'area
identificata al Catasto, al foglio 468, particelle n. 1/R (mq. 2547),
54/R (mq. 272), 2/R (mq. 958) e 3/R (mq. 170), per un totale  di  mq.
3.917, sita nel territorio del Comune di Roma, oggi Roma Capitale; 
      che, a ridosso degli  anni  '80,  la  predetta  area  e'  stata
oggetto   della   procedura    espropriativa    posta    in    essere
dall'Amministrazione Comunale per  la  realizzazione  della  via  dei
Colli Portuensi; 
      con la Deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 2540 del
9 novembre 1976 e' stato approvato il progetto per  la  realizzazione
della via dei Colli Portuensi; 
      con la Deliberazione della Giunta  Municipale  n.  231  del  10
gennaio 1978 e con la deliberazione n. 2564 del  25  maggio  1978  e'
stato  promosso  il  procedimento  di   espropriazione   delle   aree
occorrenti per la predetta opera; 
      con la Deliberazione della Giunta  Municipale  n.  6644  dell'8
agosto 1980 e' stato riapprovato, ai sensi della legge n. 1/1978,  il
progetto dei lavori di completamento della via Portuense ed e'  stata
disposta l'occupazione d'urgenza, ai sensi dell'art. 20, della  legge
n. 865/1971, dell'area  di  proprieta'  dei  ricorrenti  identificata
catastalmente al foglio n. 468, particelle n. 1/R, 54/R, 2/R  e  3/R,
per un totale di mq. 3.917; 
      con il Verbale di Consistenza ed Immissione in possesso, di cui
al prot. n. 4054 dell'8 ottobre 1980,  e'  stata  occupata  d'urgenza
l'area di cui sopra in esecuzione della citata delibera G.M. n.  6644
dell'8 agosto 1980; 
      con D.P.R.L. n. 2473 del 1981 e' stata  stabilita  l'indennita'
di  espropriazione  per  le  aree  occorrenti  per  la  realizzazione
dell'opera suddetta; 
      i ricorrenti, con la nota di cui al prot. n. 2202 del 29  marzo
1982,  hanno  espresso  la  volonta'  di  addivenire  alla   cessione
volontaria delle predette aree; 
      con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 999 del 15 marzo
1984, l'Amministrazione comunale ha ritenuto  vantaggioso  concludere
l'acquisto delle aree di  proprieta'  autorizzando  l'acquisto  delle
stesse; 
      in data  12  maggio  1985  sono  stati  ultimati  i  lavori  di
realizzazione dell'opera; 
      i ricorrenti,  pur  avendo  prodotto  tutta  la  documentazione
richiesta per addivenire  alla  stipulazione  dell'atto  pubblico  di
cessione dell'area de qua, non hanno ricevuto, nonostante i  numerosi
e reiterati solleciti, l'invito alla detta stipula  e,  pertanto,  in
data  9  giugno  1986,  hanno  formalmente  dichiarato  di   revocare
l'accettazione dell'indennita' provvisoria; 
      in considerazione di quanto sopra  l'Amministrazione  comunale,
con la deliberazione della Giunta Municipale n. 1240 del 18  febbraio
1991,  ha  revocato  parzialmente  la  deliberazione  del   Consiglio
Comunale n. 999 del 15 marzo 1984 nella parte in cui  si  autorizzava
l'acquisto  delle   predette   aree,   rimandando   ad   una   futura
deliberazione la riapprovazione - che  non  sarebbe  in  realta'  mai
avvenuta - della procedura espropriativa de qua; 
      nel corso degli anni, i ricorrenti hanno piu' volte sollecitato
l'Amministrazione comunale a voler addivenire ad una soluzione  della
controversia  in  discorso  e,  tuttavia,  nonostante  tali  ripetuti
solleciti e i numerosi incontri, non si e' mai  approdati  ad  alcuna
soluzione; 
      attualmente i ricorrenti non hanno percepito alcun indennizzo o
risarcimento  per  l'illegittimo  esproprio  delle   aree   di   loro
proprieta' meglio sopra descritte; 
      l'occupazione delle aree, avvenuta  il  18  novembre  1980,  e'
proseguita legittimamente solo per i 30 mesi previsti dalla  delibera
della Giunta Municipale n. 6644 dell'8 agosto 1980 con  l'occupazione
d'urgenza e, pertanto, fino all'8 febbraio 1983; 
      dalla predetta ultima  data,  quindi,  le  predette  aree  sono
detenute da  parte  dell'Amministrazione  comunale  senza  un  titolo
valido, non avendo la stessa mai decretato l'esproprio delle aree  in
questione ne' potendolo piu' legittimamente farlo, essendo  da  tempo
scaduti i  termini  di  validita'  della  dichiarazione  di  pubblica
utilita'. 
    Con il  ricorso  trattazione  -  premessa  la  giurisdizione  del
giudice amministrativo adito nonche' la sussistenza dell'interesse  a
ricorrere e ancora la non  decorrenza  del  termine  di  prescrizione
dell'azione risarcitoria - I ricorrenti  hanno  dedotto  il  seguente
unico complesso motivo di censura: 
      Violazione e falsa applicazione dell'art. 13,  della  legge  n.
2359 del 1865,  dell'articolo  20,  della  legge  n.  865  del  1971,
dell'articolo 1, della legge n. 1 del 1978,  dell'articolo  42  della
Costituzione  nonche'  degli  artt.  10  e  117,   comma   1,   della
Costituzione in  relazione  al  primo  protocollo  addizionale  della
Convenzione Europea ed eccesso  di  potere  per  violazione  e  falsa
applicazione della deliberazione della G.M.  n.  6644  dell'8  agosto
1980. 
    In particolare hanno dedotto che: 
      il primo comma, dell'art. 13, della legge sulle  espropriazioni
per pubblica utilita' del 25 giugno  1865,  n.  2359,  stabiliva  che
nell'atto che  dichiarava  un'opera  di  pubblica  utilita'  dovevano
essere indicati i  termini  entro  i  quali  dovevano  cominciarsi  e
compiersi le espropriazioni ed i  lavori  ed  il  terzo  comma  dello
stesso articolo si stabiliva, altresi', espressamente che,  trascorsi
i predetti termini, la dichiarazione di  pubblica  utilita'  diveniva
inefficace  e  l'espropriazione  non   poteva   essere   portata   ad
esecuzione; 
    il predetto art. 13 e' stato abolito dall'articolo 13 del  d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327, recante il T.U. delle disposizioni in  materia
di  espropriazione,  che  ha  previsto,  ma  solo  come  facoltativa,
l'indicazione del termine entro  il  quale  deve  essere  emanato  il
decreto di esproprio ed  ha  stabilito  che,  in  mancanza  di  detta
previsione, si applica il termine massimo di cinque anni  decorso  il
quale si determina  l'inefficacia  della  dichiarazione  di  pubblica
utilita'; 
      considerato, tuttavia, che la contestata procedura ablativa  si
e' svolta prima dell'entrata in vigore del T.U. delle espropriazioni,
la  legittimita'  dell'operato  dell'Amministrazione  comunale   deve
essere  verificato  con  riferimento  esclusivo   alle   disposizioni
contenute nell'allora vigente art. 13, della legge n. 2359 del 1865; 
      nella fattispecie la deliberazione della Giunta  Municipale  n.
6644  dell'8  agosto  1980   aveva   stabilito   che   la   procedura
espropriativa  doveva  concludersi  entro  30  mesi  dalla  data   di
esecutivita' della stessa e,  tuttavia,  alla  predetta  data  nessun
decreto di esproprio e' stato  messo  da  parte  dell'Amministrazione
comunale; 
      la dichiarazione di pubblica utilita' di cui alla deliberazione
della G.M. n. 6644 dell'8 agosto 1980  ha  pertanto  perduto  i  suoi
effetti; 
      l'espropriazione  dell'area  di  cui  trattasi  non   e'   piu'
possibile  a  meno  che  si  proceda  all'adozione   di   una   nuova
dichiarazione di pubblica utilita'; 
      il termine massimo di durata dell'occupazione  di  urgenza,  ai
sensi dell'art. 20, della legge n. 865 del 1971, e'  di  cinque  anni
dalla data di immissione nel possesso e, tuttavia, nella fattispecie,
la  deliberazione  della  G.M.  n.  6644  dell'8  agosto  1990  aveva
autorizzato l'occupazione di urgenza esclusivamente per 30 mesi dalla
data di esecutivita' della stessa; 
      a fare data dall'8 febbraio 1983,  pertanto,  l'Amministrazione
comunale occupa illegittimamente l'area di proprieta' dei ricorrenti. 
    Roma Capitale si e' costituita in giudizio in data 21 marzo  2012
e 18 settembre 2014 ed ha depositato  memoria  difensiva  in  data  7
ottobre 2014, con la quale - dopo avere diffusamente  ricostruito  in
punto di fatto l'intera vicenda - ha dedotto che: 
      nel caso di specie, sebbene sia stato regolarmente  avviato  un
procedimento espropriativo in base ad  una  valida  dichiarazione  di
pubblica utilita' dell'opera, tuttavia l'Amministrazione comunale non
ha provveduto ad emettere il decreto di esproprio delle aree  di  cui
trattasi entro il 12 maggio 1985, termine massimo di compimento delle
espropriazioni; 
      che la domanda formulata da  parte  attrice  e',  in  sostanza,
quella di un risarcimento dei danni in forma  specifica,  consistente
nella restituzione del terreno,  previo  risarcimento  del  danno  da
illegittima  occupazione,  ovvero,  in  caso  di  impossibilita'   di
restituzione del terreno occupato, quella del risarcimento dei  danni
per equivalente  e  quella  di  risarcimento  dei  danni  subiti  per
l'occupazione illegittima; 
      quanto  alla  richiesta  restitutoria,  la  giurisprudenza   ha
chiarito che, qualora il proprietario espropriato, in  qualche  modo,
abdichi al proprio diritto di proprieta', chiedendo  un  risarcimento
per equivalente, la  restituzione  del  bene  occupato  non  e'  piu'
possibile,  dovendosi  unicamente  disporre   il   risarcimento   per
equivalente; 
      il  diritto  al  risarcimento  del  danno  per  equivalente  e'
prescritto; 
      il diritto al risarcimento del danno da occupazione illegittima
non e' con figurabile; 
      nessuna  pretesa   e'   stata   invece   avanzata   in   ordine
all'occupazione legittima, ferma restando al riguardo  la  competenza
funzionale della Corte d'Appello; 
      il quadro normativo di riferimento nella  suddetta  materia  e'
radicalmente  cambiato  negli  ultimi  anni  in   quanto   l'istituto
dell'accessione invertita, ovvero occupazione acquisitiva,  e'  stato
duramente censurato dalla giurisprudenza della Corte Europea  nonche'
dalla conseguente giurisprudenza nazionale nel senso di ritenere  che
il comportamento della pubblica amministrazione non e' piu' idoneo  a
trasferire la proprieta' del bene occupato, in assenza di un espresso
provvedimento di acquisizione, ovvero  di  altro  mezzo  di  acquisto
della proprieta'; 
      il   predetto   orientamento   e'    stato    favorito    anche
dall'introduzione nel Testo Unico degli Espropri ad  opera  dell'art.
34 del decreto-legge n. 98/2011, convertito con  modificazioni  dalla
legge 15 luglio 2011, n. 111, dell'art. 42 bis, il quale  ha  escluso
che la proprieta' possa essere perduta per effetto di una occupazione
legittima seguita dalla realizzazione dell'pera pubblica  ovvero  per
effetto di una occupazione illegittima  seguita  dalla  richiesta  di
risarcimento  del  danno  da  parte  del   proprietario   (Corte   di
Cassazione, Sezione I civile, n. 6216 del 13 marzo 2013); 
      tuttavia,  come  evidenziato  da  parte  della  giurisprudenza,
stante  il  tenore  dell'art.  55  dello  stesso  Testo  Unico  degli
espropri, la cd. occupazione acquisitiva e' possibile ed operante per
le occupazioni perpetrate dall'Amministrazione in data antecedente al
limite temporale dell'art. 57 del d.p.r. n. 327/01, ossia nei casi in
cui la dichiarazione  di  pubblica  utilita'  esista  al  momento  di
entrata in vigore del testo unico degli espropri, come  nel  caso  di
specie  e  cio'  si  riverbera  sul  regime  della  prescrizione  del
risarcimento del danno, in quanto, qualora si consideri l'occupazione
di cui trattasi come un illecito istantaneo, si dovra'  applicare  la
prescrizione   quinquennale,   a    decorrere    dalla    commissione
dell'illecito; 
      a seguito del contrasto giurisprudenziale insorto in ordine  al
termine prescrizionale ed  alla  sua  decorrenza,  e  soprattutto  in
considerazione delle conseguenze derivanti, la Corte  di  Cassazione,
con l'ordinanza n. 11684 del 15 maggio 2013, ha rimesso  la  relativa
questione alle Sezioni Unite ai  fini  della  risoluzione  del  detto
contrasto giurisprudenziale e, alla presente data, non risulta che le
Sezioni Unite si siano pronunciate; 
      l'acquisto  a  titolo  originario  della  proprieta'  in   capo
all'Amministrazione sarebbe avvenuto in data 24 aprile 1984, data  in
cui il Comune di Roma - ora Roma Capitale  -  Ente  espropriante,  ha
ultimato i  lavori  sulle  aree  di  cui  trattasi,  con  conseguente
irreversibile trasformazione delle medesime; 
      attesa la natura istantanea dell'illecito de qua, ogni relativa
pretesa risarcitoria avrebbe dovuta essere avanzata nei  cinque  anni
successivi al momento in cui  la  proprieta'  e'  passata,  a  titolo
originario, in capo all'Amministrazione, in  base  ai  noti  principi
della cosiddetta occupazione acquisitiva o  espropriazione  di  fatto
con la conseguenza che il diritto  dei  ricorrenti  a  conseguire  il
controvalore  dell'immobile  perduto  risulta  ormai  prescritto,  in
quanto, prima del ricorso in questione, notificato in data in data 16
febbraio 2012, gli stessi non hanno mai avanzato al  riguardo  alcuna
richiesta  risarcitoria,   limitandosi   soltanto   a   chiedere   la
corresponsione dell'indennita' di occupazione, presentando una  serie
di istanze tra il 1994 e il 2006; 
      inoltre, essendosi l'irreversibile trasformazione del  terreno,
determinante l'acquisto a titolo originario della proprieta' in  capo
all'amministrazione,  avvenuta  durante  il  periodo  di  occupazione
legittima  delle  aree  interessate,  pari  a  sessanta  mesi   dalla
immissione nel possesso, ossia 18 novembre 1980/18 novembre 1985, non
si puo' nemmeno configurare alcun diritto al risarcimento  del  danno
da occupazione illegittima; 
      in via subordinata, l'indennita' di occupazione illegittima  e'
da considerarsi prescritta, quanto meno per il periodo antecedente il
quinquennio dalla proposizione del ricorso; 
      in  via  subordinata,  l'amministrazione  potrebbe,   comunque,
evitare la restituzione del bene adottando un provvedimento  ex  art.
42 bis del T.U. delle espropriazioni rientrando la  predetta  opzione
nella  valutazione  discrezionale  dell'amministrazione   avente   ad
oggetto la scelta se procedere alla  restituzione  del  bene,  previa
rimessione in  pristino,  o  ricondurre  a  legittimita'  il  proprio
operato avvalendosi della norma di cui trattasi. 
    Con  la  memoria  del  17  ottobre  2014   i   ricorrenti   hanno
contro-dedotto   alle   difese   avversarie   insistendo   ai    fini
dell'accoglimento dello stesso. In particolare  hanno  richiamato  la
giurisprudenza in materia della sezione in  materia  di  prescrizione
del credito al risarcimento dei danni nelle fattispecie  analoghe  ed
hanno  dato  atto  che  l'amministrazione  e'   tenuta   comunque   a
ripristinare  una  situazione  di  legalita'  secondo  le   modalita'
alternative previste nell'ambito dell'ordinamento. 
    Con atti del 19 novembre 2014, si sono costituiti in giudizio  in
sede  di  intervento  i  signori  Dario   Bencivenghi   e   Pierluigi
Bencivenghi nella qualita' di eredi del signor Renato Bencivenghi,  i
signori Bencivenghi Manolo, Alessandro e Matilde  nella  qualita'  di
eredi  del  signor  Mario  Bencivenghi  nonche'  i  signori  Ronzello
Giuseppe e Valerio nella qualita' di  eredi  della  signora  Giuliani
Silvana. 
    Alla pubblica udienza del 19 novembre 2014 il  ricorso  e'  stato
trattenuto per la decisione alla presenza degli avvocati delle  parti
come da separato verbale di causa. 
    2 - La vicenda cui si riferisce la controversia in esame concerne
la  procedura  posta  in  essere  dal  Comune  di   Roma,   originata
dall'intervenuta  approvazione,  con   la   delibera   della   Giunta
Municipale del Comune  di  Roma  n.  6644  dell'8  agosto  1980,  del
progetto per la realizzazione di opere di viabilita' con  contestuale
dichiarazione di pubblica utilita',  indifferibilita'  e  urgenza  ed
autorizzazione all'occupazione d'urgenza, su una porzione di  terreni
di proprieta' dei ricorrenti. Effettuata l'occupazione  dei  terreni,
le opere sono state realizzate senza che il Comune  resistente  abbia
portato a termine la procedura  espropriativa  mediante  adozione  di
decreto di esproprio. 
    2.1 - In via preliminare si da atto che non puo' procedersi nella
fattispecie all'accertamento della intervenuta abdicazione, da  parte
dei ricorrenti, al diritto di proprieta' sulle aree interessate dalla
realizzazione dell'opera  pubblica.  Facendo,  infatti,  applicazione
degli ordinari principi civilistici, l'esigenza di una  piena  tutela
del diritto di proprieta' esige che l'effetto traslativo  consegua  a
una volonta' espressa ed inequivoca del proprietario interessato,  da
tradursi in strumenti negoziali formali e tipici (Consiglio di Stato,
Sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2559) dovendosi, comunque,  tenere  conto
dello specifico regime giuridico degli atti inter vivos  con  cui  si
puo'  disporre,  anche  attraverso  l'abdicazione,  del  diritto   di
proprieta' (art. 1350 n. 5 c.c. e art. 2643 n. 5 c.c.). 
    2.3 - La disciplina applicabile  alla  fattispecie  in  esame  va
individuata nell'art. 42 bis, del d.P.R. n. 327 del 2001 - introdotto
con l'art. 34, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito  in
legge 15 luglio 2011, n. 111 (in materia di  misure  urgenti  per  la
stabilizzazione  finanziaria)  a  seguito'  della   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale dell'art. 43, del  d.P.R.  n.  327  del
2001 con la sentenza della Corte costituzionale n. 293 del  2010,  il
quale disciplinava l'istituto  dell'acquisizione  sanante  -  con  il
quale e' stato  reintrodotto  l'istituto  dell'acquisizione  coattiva
dell'immobile del privato utilizzato dall'amministrazione per fini di
interesse  pubblico,  prevedendo  l'acquisizione  al  suo  patrimonio
indisponibile del bene del privato  allorche'  la  sua  utilizzazione
risponda a "scopi di interesse pubblico" nonostante difetti un valido
ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della  pubblica
utilita'. 
    Dispone, difatti, il citato articolo, che "Valutati gli interessi
in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi  di
interesse pubblico, modificato in assenza di un  valido  ed  efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica  utilita',
puo' disporre che esso sia acquisito, non  retroattivamente,  al  suo
patrimonio indisponibile e che al  proprietario  sia  corrisposto  un
indennizzo  per  il  pregiudizio  patrimoniale  e  non  patrimoniale,
quest'ultimo forfetariamente liquidato nella  misura  del  dieci  per
cento del valore venale del bene". 
    E'  stato  cosi'  reintrodotto  il  potere   discrezionale   gia'
disciplinato  dall'art.  43  del  T.U.  Espropriazioni  per  pubblica
utilita'  dichiarato  incostituzionale,   potendo   l'amministrazione
competente, valutate le circostanze  e  comparati  gli  interessi  in
conflitto, decidere se restituire l'area al proprietario demolendo in
tutto o in parte l'opera sostenendone le relative  spese,  oppure  se
disporne l'acquisizione, si' da evitare  che  venga  demolito  quanto
altrimenti risulterebbe meritevole di essere  ricostruito  (Consiglio
di Stato, Sez. VI, 1° dicembre 2011 n. 6351). 
    Posta l'applicabilita' alla fattispecie in esame -  in  relazione
all'oggetto della domanda ed ai fatti di causa - della citata  norma,
ritiene il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondata,
analogamente a quanto ritenuto dalla  Corte  di  Cassazione,  Sezioni
Unite, con ordinanza n. 441 del 13  gennaio  2014,  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 42  bis  del  d.P.R.  8  giugno
2001, n. 327, introdotto dall'art. 34, primo comma, del d.l. 6 luglio
2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, in relazione
agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., anche alla luce dell'art.  6  e
dell'art. 1 del I Protocollo Addizionale  della  Convenzione  Europea
dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta'  Fondamentali,  in  quanto  la
disposizione  citata,  reintroducendo  una  sorta   di   procedimento
ablativo semplificato in favore della P.A. che utilizzi senza  titolo
un bene privato per scopi di interesse pubblico, si pone in contrasto
con il principio costituzionale di eguaglianza  e  di  ragionevolezza
intrinseca, con la garanzia della proprieta' privata, posta  altresi'
da vincoli derivanti da obblighi internazionali, con il principio  di
legalita' dell'azione amministrativa, riservando all'Amministrazione,
intesa come  soggetto  autore  di  un  fatto  illecito  e  non  quale
espressione  della   funzione   amministrativa,   un   ingiustificato
trattamento privilegiato, tale da consentirle l'acquisizione del bene
al patrimonio pubblico per effetto di un  suo  comportamento  "contra
ius", di cui si avvantaggia pure nella determinazione dell'indennizzo
o risarcimento dovuto al proprietario rispetto al ristoro  altrimenti
spettante nel caso di legittimo procedimento espropriativo. 
    2.3.1 - Quanto al profilo inerente la rilevanza della  questione,
la stessa va  ravvisata  nella  applicabilita'  di  tale  norma  alla
fattispecie  in  esame,  sulla  cui  base  devono  essere  decise  le
questioni proposte da parte ricorrente. 
    Nell'attuale quadro normativo, come delineato  dall'art.  42  bis
d.P.R. n. 327 del 2001, grava sull'amministrazione che ha  modificato
un bene immobile del privato in assenza  di  un  valido  ed  efficace
titolo di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita' dell'opera
realizzata l'obbligo giuridico di far venire meno l'occupazione  sine
titulo e di adeguare la situazione di fatto a  quella  di  diritto  o
attraverso la restituzione dei beni ai titolari, con  demolizione  di
quanto realizzato e relativa riduzione in  pristino  (affrontando  le
relative  spese),  ovvero  attivandosi  perche'  vi  sia  un   titolo
d'acquisto  dell'area  da  parte  del  soggetto  attuale   possessore
evitando che sia demolito quanto dovrebbe essere ricostruito, potendo
il provvedimento di acquisizione essere adottato solo sulla  base  di
una determinazione dell'amministrazione, anche in corso di  giudizio,
essendo il potere acquisitivo dell'amministrazione esercitabile anche
in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che
abbia  annullato  il  provvedimento   che   costituiva   titolo   per
l'utilizzazione dell'immobile da parte della stessa  Amministrazione,
atteso che il giudicato e' intervenuto sull'atto annullato e non  sul
rapporto tra privato ed Amministrazione. 
    Viene   in   tal   modo   riconosciuta   all'Amministrazione   la
possibilita' di adottare un nuovo atto finche' perdura  lo  stato  di
utilizzazione, pur se illegittima, del bene del privato, atto che non
opera con efficacia retroattiva e non ha  una  funzione  sanante  del
provvedimento annullato, dovendo la P.A. adottare tutte le iniziative
necessarie per porre fine alla perdurante situazione  di  illiceita',
restituendo il bene al privato solo quando siano cessate  le  ragioni
di pubblico interesse  che  avevano  comportato  l'utilizzazione  del
suolo o, in caso contrario, acquisire al suo patrimonio indisponibile
il bene su cui insiste o dovra' essere realizzata l'opera pubblica  o
di pubblico interesse. 
    Il  potere   discrezionale   dell'Amministrazione   di   disporre
l'acquisizione sanante e' in tal modo conservato (Cons.  Stato,  Sez.
IV, 16 marzo 2012, n. 1514). 
    Alla  stregua   dell'attuale   quadro   normativo,   quindi,   la
realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato
e' in se'  un  mero  fatto,  non  in  grado  di  assurgere  a  titolo
dell'acquisto, come tale  inidoneo  a  determinare  il  trasferimento
della proprieta', per  cui  solo  il  formale  atto  di  acquisizione
dell'Amministrazione puo' essere in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi  (rinunziativi  o
abdicativi) della proprieta' in altri comportamenti, fatti o contegni
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 ottobre  2012  n.  5198;  TAR  Lazio,
Roma, 6 novembre 2012 n. 9052). 
    Ne discende che, laddove l'Amministrazione non  intenda  comunque
apprendere  il  bene  tramite  l'acquisizione  del   consenso   della
controparte o l'adozione di un  provvedimento  autoritativo,  e'  suo
obbligo  primario  procedere  alla  restituzione   della   proprieta'
illegittimamente detenuta, a meno di non apprendere legittimamente il
bene facendo uso  unicamente  dei  due  strumenti  tipici,  ossia  il
contratto, tramite l'acquisizione del consenso della  controparte,  o
il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la
riedizione del procedimento con le sue garanzie. 
    L'illecita occupazione, e  quindi  il  fatto  lesivo,  permangono
pertanto fino  al  momento  della  realizzazione  di  una  delle  due
fattispecie  legalmente   idonee   all'acquisto   della   proprieta',
indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente
o autoritativamente. 
    Ed invero, con la declaratoria di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 43  del  Testo  unico  sulle  espropriazioni  di  cui  alla
sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010,  con  espunzione
dal nostro ordinamento dell'istituto dell'acquisizione de facto della
proprieta' in mano pubblica a seguito della realizzazione dell'opera,
l'esecuzione dell'opera pubblica  non  costituisce  impedimento  alla
restituzione   dell'area    illegittimamente    occupata    e    cio'
indipendentemente  dalle  modalita'  -  occupazione   acquisitiva   o
usurpativa - di acquisizione del terreno (in tal  senso  anche  Cons.
Stato, Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844). 
    Applicando le indicate coordinate interpretative dell'art. 42-bis
del D.P.R. n. 327 del 2001 alla fattispecie in esame,  caratterizzata
dall'intervenuta  realizzazione  di  un'opera  pubblica  su  aree  di
proprieta' dei ricorrenti in assenza di un valido  titolo  ablatorio,
con conseguente illegittimita' dell'occupazione,  va  dunque  escluso
che si sia determinato un acquisto a titolo originario delle aree  da
parte dell'Amministrazione in  virtu'  della  radicale  e  definitiva
trasformazione del suolo, conseguente alla sua  occupazione  ed  alla
realizzazione dell'opera  pubblica,  non  essendosi  conseguentemente
estinto il diritto di proprieta' del suolo in capo alla ricorrente. 
    Tenuto conto, inoltre, che l'art. 42-bis del D.P.R.  n.  327  del
2000 affida all'Autorita' amministrativa la scelta di determinarsi in
ordine  all'eventuale  acquisizione  delle   aree   irreversibilmente
trasformate,  ne  discende  l'impossibilita'  per   il   Giudice   di
sostituirsi  all'Amministrazione   nella   previa   valutazione   dei
contrapposti interessi, con conseguente preclusione alla possibilita'
di ordinare un facere alla Pubblica Amministrazione, nella specie  di
ordine di procedere all'adozione di un provvedimento di  acquisto  ex
nunc della proprieta'  delle  aree  trasformate  dalla  realizzazione
dell'opera pubblica. 
    Non vi e' spazio, difatti, nell'ordinamento, per  configurare  un
modo di  acquisto  della  proprieta'  da  parte  dell'Amministrazione
attraverso un ordine del  Giudice,  non  prevedendo  il  citato  art.
42-bis che il proprietario danneggiato  dall'occupazione  illegittima
possa   richiedere   al   giudice    amministrativo    di    ordinare
all'Amministrazione di attivare il procedimento espropriativo  e  non
rientrando la fattispecie di cui al predetto art. 42-bis  tra  quelle
indicate dall'art. 134 cod.  proc.  amm.,  in  relazione  alle  quali
l'art.  7,  comma  6,  cod.  proc.  amm.  prevede  che   il   giudice
amministrativo possa sostituirsi all'Amministrazione. 
    Ricadendo,  quindi,  la  fattispecie  in  esame,  nell'ambito  di
applicazione  del  citato   art.   42-bis,   il   Collegio,   facendo
applicazione  dello  stesso,  dovrebbe  limitarsi  a  ordinare   alla
resistente Amministrazione Comunale di  procedere  alla  restituzione
alla societa' ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa
riduzione in pristino, e  a  risarcire  il  danno  per  l'occupazione
illegittima, fermo restando che  l'Amministrazione  puo'  paralizzare
tale pronuncia mediante l'adozione del provvedimento con cui disporre
l'acquisto ex nunc del bene  al  suo  patrimonio  indisponibile,  con
corresponsione al proprietario di un indennizzo  per  il  pregiudizio
patrimoniale e non patrimoniale subito, spettando  in  via  esclusiva
all'Amministrazione che  utilizza  un  bene  immobile  per  scopi  di
interesse pubblico, modificato in assenza di un  valido  ed  efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica  utilita',
procedere alla valutazione degli interessi in conflitto  al  fine  di
disporre  che  esso  sia  acquisito,  non  retroattivamente,  al  suo
patrimonio  indisponibile,  non  potendo   il   Giudice   sostituirsi
all'Amministrazione comunale nelle valutazioni alla stessa  spettanti
in merito alla sussistenza dei presupposti (e,  in  particolare,  del
persistente  interesse  pubblico  alla  fruizione,  da  parte   della
collettivita',  dell'opera   pubblica   realizzata)   per   procedere
all'acquisizione, consensuale o coattiva, dei beni  con  il  consenso
della controparte o facendo ricorso alla procedura  di  cui  all'art.
42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001. 
    Alla societa' ricorrente andrebbe, inoltre,  riconosciuto,  oltre
al diritto alla restituzione delle aree illegittimamente occupate, il
diritto ad ottenere il risarcimento dei danni medio tempore subiti, a
vario titolo derivanti dalla  perdurante  abusiva  occupazione  delle
aree di sua proprieta', nonche' il diritto, in caso  di  acquisizione
delle aree, ad ottenere la corresponsione  del  valore  venale  delle
stesse, per come previsto dalla citata norma. 
    2.3.2 - Dato conto, sulla base di quando dianzi illustrato, della
rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale  dell'art.
42 bis del D.P.R. n. 327 del  2001  ai  fini  della  decisione  della
controversia in esame, dovendo la decisione  in  ordine  alla  stessa
fare  applicazione  della  citata  norma,  occorre   procedere   alla
enucleazioni delle ragioni per cui tale  norma  viene  sospettata  di
contrasto con i parametri costituzionali. 
    L'art. 42-bis ("Utilizzazione senza titolo di un bene  per  scopi
di interesse pubblico") del D.P.R. n. 327 del 2001 -  introdotto  con
l'art. 34 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge
15 luglio  2011,  n.  111  (in  materia  di  misure  urgenti  per  la
stabilizzazione finanziaria), dispone, per  come  dianzi  illustrato,
che "Valutati gli interessi in conflitto, l'autorita' che utilizza un
bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in  assenza
di un valido ed efficace provvedimento di  esproprio  o  dichiarativo
della pubblica utilita', puo' disporre che esso  sia  acquisito,  non
retroattivamente,  al  suo  patrimonio   indisponibile   e   che   al
proprietario  sia  corrisposto  un  indennizzo  per  il   pregiudizio
patrimoniale  e  non   patrimoniale,   quest'ultimo   forfetariamente
liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene
(comma 1). Il provvedimento  di  acquisizione  puo'  essere  adottato
anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto  il  vincolo
preordinato all'esproprio, l'atto che abbia  dichiarato  la  pubblica
utilita' di un'opera o il decreto di esproprio..." (comma 2). 
    E' stata in tal modo reintrodotta, secondo  la  piu'  qualificata
dottrina e la  giurisprudenza  amministrativa,  la  possibilita'  per
l'Amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi
di interesse pubblico, di evitarne la  restituzione  al  proprietario
(e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto
di acquisizione coattiva al  proprio  patrimonio  indisponibile,  che
sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone,
a  sua  volta,  come  una   sorta   di   procedimento   espropriativo
semplificato. Il  quale  assorbe  in  se'  sia  la  dichiarazione  di
pubblica utilita', che il decreto di esproprio, e  quindi  sintetizza
"uno actu" lo svolgimento dell'intero procedimento, in  presenza  dei
presupposti indicati dalla norma. 
    La nuova soluzione  e'  apparsa  al  legislatore  indispensabile,
anzitutto   per   "eliminare   la   figura   sorta    nella    prassi
giurisprudenziale della occupazione appropriativa ... nonche'  quella
dell'occupazione usurpativa.." (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e  quindi
al fine di adeguare l'ordinamento "ai principi  costituzionali  ed  a
quelli  generali  di  diritto  internazionale  sulla   tutela   della
proprieta'". 
    Ed infatti, in forza di detto provvedimento  cessa  l'occupazione
sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene  adeguata  a
quella di diritto con l'attribuzione  (questa  volta)  formale  della
proprieta' alla  p.a.  (se  prevale  l'interesse  pubblico),  cui  e'
consentita una legale via di  uscita  dalle  numerose  situazioni  di
illegalita' realizzate nel corso degli anni. 
    Viene in tal modo consentito il ripristino della legalita'  anche
con riferimento alle  situazioni  gia'  verificatesi,  per  le  quali
permane egualmente la necessita' di regolarizzazione definitiva. 
    L'art. 42-bis ha riproposto in sostanza l'applicazione  estensiva
dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui  ha  ereditato
perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto:  1)
ha superato la norma transitoria dell'art. 57 con l'introduzione  del
comma 8, per il quale "Le disposizioni del presente articolo  trovano
altresi' applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata  in  vigore
ed anche se  vi  e'  gia'  stato  un  provvedimento  di  acquisizione
successivamente ritirato o annullato"; 2) ha confermato, malgrado  la
critica sul punto della Corte costituzionale, l'estensione del potere
di acquisizione alle servitu' di fatto (comma 7), in passato  escluse
dall'occupazione espropriativa (perche' ne difetta la non  emendabile
trasformazione del suolo  in  una  componente  essenziale  dell'opera
pubblica); 3) non richiede piu' che l'immobile realizzando rientri in
una delle categorie individuate dagli artt.  822  ed  826  Cod.  Civ.
(postulate dall'occupazione appropriativa). 
    E' stato, anzi, rescisso perfino il collegamento con l'area delle
espropriazioni per p.u.,  prevedendosi  l'applicazione  dell'istituto
anche nell'ipotesi in cui sia stato annullato l'atto da cui e'  sorto
il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione
dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato
una qualche modifica, pur  quando  "attribuito...in  uso  speciale  a
soggetti privati (comma 5); 4) ha conclusivamente invertito principio
tratto dall'art. 42 Cost. ed art.  834  Cod.  Civ.  che  la  potesta'
ablativa ha carattere eccezionale che non puo' essere  esercitata  se
non nei casi in cui sia la legge a prevederla (l. n.  2359  del  1865
per la realizzazione di opere pubbliche, l. n. 1089 del  1939  per  i
beni storici, artistici; d.lgs. n. 215  del  1933  per  finalita'  di
bonifica;  d.lgs.  n.  3267  del  1923   per   fini   di   protezione
idro-geologica ecc). In quanto l'acquisizione e' predisposta  in  via
generale ed indeterminata per qualsiasi "utilizzazione"  del  bene  -
meramente  detentiva,  come  preordinata  all'esproprio,  reversibile
oppure irreversibile - in seguito alla quale il provvedimento non  e'
tenuto ad individuarne neppure la destinazione,  essendo  sufficiente
"l'indicazione delle circostanze che  hanno  condotto  alla  indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla  quale  essa  ha
avuto inizio" (comma 4). 
    Questi caratteri dell'acquisizione, qualificabile come "sanante",
sono gli stessi che hanno indotto la  Corte  costituzionale,  con  la
sentenza n. 293 del 2010 ad  osservare  che  l'istituto  "prevede  un
generalizzato   potere   di   sanatoria,   attribuito   alla   stessa
amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di  un
giudicato che dispone il ristoro in forma specifica  del  diritto  di
proprieta' violato"; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto
al contesto normativo  positivo,  "neppure  e'  coerente  con  quegli
orientamenti di giurisprudenza  che,  in  via  interpretativa,  erano
riusciti a porre un certo rimedio ad alcune  gravi  patologie  emerse
nel corso dei procedimenti espropriativi". 
    Ne consegue che la sua riproduzione nell'art. 42 bis, applicabile
ad  ogni  genere  di  situazione  sostanziale  e  processuale   sopra
indicata, con  il  risultato  di  offrire  alla  P.A.  una  vasta  ed
indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e  gravi
dubbi di costituzionalita' - anche per le  possibili  violazioni  del
principio di legalita' dell'azione amministrativa - in  relazione  ai
precetti contenuti negli artt. 3, 24,  42  e  97  Cost.;  nonche'  di
compatibilita' con la normativa  della  Convenzione  CEDU,  e  quindi
dell'art. 117 Cost. 
    In linea piu' generale, infatti,  dottrina  e  giurisprudenza  si
sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto illecito, fonte
per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di
cui agli artt. 2043 e 2058  Cod.  Civ.,  possa  essere  riservato  un
trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3  Cost.)
ed attribuita  la  facolta'  di  mutare,  successivamente  all'evento
dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto  di  una
propria unilaterale manifestazione di volonta', il titolo e  l'ambito
della responsabilita', nonche' il tipo di sanzione  (da  risarcimento
in indennizzo) stabiliti in via generale dal  precetto  del  "neminem
laedere" per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume
del  principio  costituzionale  (ritenuto  da  Corte   costituzionale
204/2004 "una conquista  liberale  di  grande  importanza")  che  nel
sistema  vigente   e'   privilegiata   la   tutela   della   funzione
amministrativa e non della p.a. come soggetto. 
    La risposta non puo' che essere quella che, allorquando la stessa
opera al di fuori di detta funzione, e' soggetta a  tutte  le  regole
vincolanti per gli altri  soggetti,  nonche'  esposta  alle  medesime
responsabilita', fra  cui  quelle  di  cui  alle  norme  codicistiche
menzionate; e che vale anche per essa la regola che "factum  infectum
fieri nequit", costituente limite invalicabile anche per il potere di
sanatoria in via amministrativa di una situazione di  illegittimita'.
Sicche', una volta attuata in tutti i suoi  elementi  costitutivi  la
lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non puo'  mai
mutare  natura  e   divenire   "giusta"   per   effetto   dell'azione
amministrativa, cui non e' consentito neppure di eliminarne "ex post"
le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad  esse
conciate. 
    Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa
applicazione del principio di legalita' sostanziale  predicato  dalla
normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011,
0C 405/10); nonche' nella  giurisprudenza  della  Corte  Edu  (1,  13
ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 15 dicembre 2005,
Scozzari; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio  2010,
Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima  nella  proprieta'
privata, fondata sempre e  comunque  sul  coronario  divenuto  per  i
giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non  e'  consentito
(ne' direttamente ne'  indirettamente)  trarre  vantaggio  da  propri
comportamenti illeciti e, piu' in  generale,  da  una  situazione  di
illegalita' dalla stessa determinata. Laddove l'art. 42-bis,  per  il
solo   fatto   della   connotazione   pubblicistica   del    soggetto
responsabile, ha soppresso  tale  pregresso  regime  dell'occupazione
abusiva di un immobile altrui, sottraendo  al  proprietario  l'intera
gamma delle azioni di  cui  disponeva  in  precedenza  a  tutela  del
diritto dominicale, e la stessa facolta' di scelta di  avvalersene  o
meno. E, considerando esclusivamente gli scopi  dell'amministrazione,
l'ha trasferita  dalla  "vittima  dell'ingerenza"  (tale  qualificata
dalla Corte europea), all'autore del fatto  illecito,  attraverso  la
sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione  emesso
da quest'ultimo, di  un  nuovo  modo  di  acquisto  della  proprieta'
privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di
opere pubbliche, e perfino con una pregressa procedura ablativa. 
    Ed infatti, l'istituto introdotto con l'art. 42-bis, riproduttivo
di quello precedente, e' rivolto a definire in  linea  generale  (non
piu' un procedimento espropriativo in itinere, bensi')  "quale  sorte
vada  riservata  ad   una   res   utilizzata   e   modificata   dalla
amministrazione, restata senza titolo  nelle  mani  di  quest'ultima"
(Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.). 
    Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi  al
suddetto  principio  di  legalita'  in   ambito   espropriativo,   la
giurisprudenza di legittimita' fin dall'inizio degli anni  '80  aveva
riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978;  2931/1980;  5856/1981)  la
regola, fino ad  allora  seguita,  che  alla  P.A.  occupante  (senza
titolo) fosse concesso di completare la procedura  ablativa  in  ogni
tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino  nel
corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la  restituzione
dell'immobile;  e  che  il  solo  fatto  dell'adozione  postuma   del
provvedimento  ablativo  -  ammissibile  fino  alla  decisione  della
Cassazione  -  comportasse  la  conversione  automatica   dell'azione
restitutoria   e/o   risarcitoria,   in   opposizione   alla    stima
dell'indennita'; alla quale soltanto il proprietario finiva per avere
diritto. E tale adeguamento  alla  normativa  costituzionale  non  e'
sfuggito alla ricordata decisione n. 293 del 2010 della Consulta  che
lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a
quelli del decreto tardivo), dando atto che da  decenni  "secondo  la
giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi". 
    Poste tali premesse, il dubbio di elusione delle  garanzie  poste
dall'art. 42 Cost. a tutela della "proprieta' privata" (commi 2 e  3)
appare al Collegio ancor piu' consistente in  relazione  al  primo  e
fondamentale presupposto per procedere al trasferimento  coattivo  di
un immobile mediante espropriazione, ivi  indicato  nella  necessaria
ricorrenza di "motivi di  interesse  generale";  che  trova  puntuale
riscontro in quello di eguale tenore dell'art.  1  del  Protocollo  1
All. alla  Convenzione  EDU  per  cui  l'ingerenza  nella  proprieta'
privata  puo'  essere  attuata  soltanto  "per  causa   di   pubblica
utilita'". 
    Fin  dalle  decisioni   piu'   lontane   nel   tempo   la   Corte
costituzionale ha affermato  al  riguardo  (sent.  90/1966)  che  "Il
precetto costituzionale, secondo  cui  una  espropriazione  non  puo'
essere consentita dalla legge se non per motivi di interesse generale
(o per pubblica utilita'), e cioe' se non quando lo  esigano  ragioni
importanti  per  la  collettivita',  comporta,  in  primo  luogo,  la
necessita' che la legge indichi le ragioni per le quali si  puo'  far
luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non possa essere
autorizzata se non nella effettiva presenza  delle  ragioni  indicate
dalla legge" ed ancora che  "Nelle  leggi  della  materia  -  la  cui
fondamentale espressione e' rappresentata dalla l. 25 giugno 1865, n.
2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e  anche
li' dove esso  non  risulta  espressamente  enunciato,  e'  stata  la
giurisprudenza a proclamare l'inderogabilita' del principio) che  fin
dal  primo  atto  della  procedura  espropriativa  debbono  risultare
definiti non soltanto l'oggetto, ma anche le finalita', i mezzi  e  i
tempi di essa..." Negli stessi termini tutti i successivi  interventi
della Consulta (sentenze  nn.  95/1966;  384/1990;  486/1991;  155  e
188/1995), nonche' la consolidata giurisprudenza di legittimita'  che
fin dai primi anni '60 (Sez. un. 826/1960 e succ.),  ha  definito  la
dichiarazione di  p.u.  "la  guarentigia  prima  e  fondamentale  del
cittadino  e  nel  contempo  la  ragione  giustificatrice   del   suo
sacrificio nel bilanciamento degli interessi  del  proprietario  alla
restituzione dell'immobile ed  in  quello  pubblico  al  mantenimento
dell'opera pubblica per la funzione  sociale  della  proprieta'";  ha
costantemente confermato  che  la  suddetta  garanzia  costituzionale
viene  osservata  soltanto  se  la   causa   del   trasferimento   e'
predeterminata    nell'ambito    di    un    apposito    procedimento
amministrativo, nel bilanciamento  dell'interesse  primario  con  gli
altri interessi in gioco. Ed e' rimasta sempre ancorata al  principio
che la mancanza della preventiva dichiarazione di  pubblica  utilita'
implica il  difetto  di  potere  dell'Amministrazione  nel  procedere
all'espropriazione. 
    La  norma  costituzionale  richiede,   quindi,   che   i   motivi
d'interesse  generale  per  giustificare   l'esercizio   del   potere
espropriativo  nei  (soli)  casi   stabiliti   dalla   legge,   siano
predeterminati  dall'Amministrazione  ed  emergano  da  un   apposito
procedimento - individuato nel procedimento dichiarativo del pubblico
interesse culminante nell'adozione della  dichiarazione  di  pubblica
utilita' - preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo
procedimento   espropriativo   in   senso    stretto,    nel    quale
l'Amministrazione programma  un  nuovo  bene  giuridico  destinato  a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale  e  concreto.  E
che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo  spossessamento
nonche') al sacrificio del diritto di proprieta', in  un  momento  in
cui la comparazione tra l'interesse pubblico  e  l'interesse  privato
possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei
principi d'imparzialita' e proporzionalita' (art. 97  Cost.):  in  un
momento, cioe' in cui la lesione del diritto dominicale non e' ancora
attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non  sono
ostacolate  da  una  situazione  fattuale   ormai   irreversibilmente
compromessa. Da  qui  la  formula  dell'art.  42,  comma  3  per  cui
l'espropriazione in tanto e' costituzionalmente legittima  in  quanto
e' originata da "motivi di interesse generale", ovvero  collegata  ad
un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano
una  incisione  nella  sfera  del  privato  proprietario,  di  questo
valorizzando il  ruolo  partecipativo;  e  la  conseguenza  che  tale
risultato  non  sarebbe  garantito  dall'esercizio   di   un   potere
amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione
degli interessi in conflitto, e' destinato in concreto a giustificare
ex post sacrificio espropriativo unicamente in base  alla  situazione
di fatto illegittimamente determinatasi. 
    La preventiva  emersione  dei  motivi  d'interesse  generale  non
costituisce,   conclusivamente,   semplice   regola    procedimentale
disponibile dal legislatore,  ma  specifica  garanzia  costituzionale
strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra
l'imponente giurisprudenza, soprattutto  amministrativa,  secondo  la
quale la dichiarazione di pubblica utilita' non e' un  semplice  atto
prodromico con l'esclusivo effetto di  condizionare  la  legittimita'
del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi  solo
congiuntamente a  quest'ultimo,  bensi'  un  provvedimento  autonomo,
idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella  sfera  giuridica
di terzi. I quali  si  riflettono  necessariamente  sul  piano  della
tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo  all'espropriando
di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e  quindi  di
contestarlo sin dal primo momento  del  suo  farsi,  coincidente  con
l'emersione dei motivi d'interesse generale. 
    Per converso, l'art. 42 bis, prescindendo dalla dichiarazione  di
p.u.,  autorizza  l'espropriazione  sostanziale  in  assenza  di  una
predeterminazione dei  motivi  d'interesse  generale  che  dovrebbero
giustificare il  sacrificio  del  diritto  di  proprieta',  reputando
sufficiente che la perdita del bene da parte del  proprietario  trovi
giustificazione nella situazione  di  fatto  venutasi  a  creare  per
effetto    del    comportamentocontra    ius    dell'Amministrazione,
consentendone l'acquisizione anche laddove tale procedura  sia  stata
violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il  rispetto
del  procedimento  tipizzato  dalla  legge  in  una   mera   facolta'
dell'Amministrazione. 
    In tal modo la dichiarazione di pubblica utilita' viene  relegata
al momento procedimentale  eventuale,  la  cui  assenza  puo'  essere
superata dal provvedimento di acquisizione che ne elimina  in  radice
la necessarieta'. 
    Cio' in contrasto, peraltro, anche con la  complessiva  e  rigida
disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso D.P.R. n. 327  del
2001 che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al "principio
di legalita' dell'azione amministrativa": dal momento che  il  potere
sanante viene di fatto  ad  esautorare  il  significato  dei  doveri,
obblighi e limiti che scandiscono il procedimento  espropriativo.  Ed
in contrasto soprattutto con quella specifica del  capo  3^  relativo
alla  "fase  della  dichiarazione  di  p.u."  che  ha  istituito,  in
conformita' all'art. 97 Cost. un giusto procedimento che riconosce  e
valorizza il ruolo partecipativo del privato proprietario  (artt.  11
segg.),  reso  superfluo  dalla  contestuale   introduzione   di   un
meccanismo "semplificato", parallelo ed alternativo, rimesso a scelte
insindacabili dell'Amministrazione. Alla quale  in  definitiva  viene
attribuito il potere (di volta in volta, e per ogni  espropriazione),
di recepire ovvero escludere le  garanzie  connesse  al  procedimento
normale. Non e' sostenibile, infatti,  che,  siccome  l'adozione  del
provvedimento  di  acquisizione  e'   subordinato   ad   una   previa
valutazione degli interessi in conflitto ed  al  fatto  che  il  bene
occupato  sia  utilizzato  per  scopi  d'interesse  generale,  queste
espressioni abbiano valenza complessiva. di sostanziale sinonimo  dei
"motivi di interesse generale" di cui all'art. 42 Cost., comma 3:  in
quanto il riferimento normativo alla valutazione degli  interessi  in
conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima  discrezionalita'
dell'Amministrazione espropriante, assolutamente privo di "elementi e
criteri  idonei  a  delimitarla  chiaramente"  (Corte  costituzionale
38/1966), tanto che non  viene  descritto  alcun  parametro,  neppure
vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere  ancorata;
e neppure, viene  prefigurato  l'ingresso  nell'iter  decisionale  di
interessi privati che tale discrezionalita' possano in qualche misura
indirizzare o soltanto attenuare. Mentre e' lo stesso art. 42-bis  ad
escludere che i generici ed indeterminati scopi di interesse generale
- che peraltro si limitano a  riprodurre  la  regola  per  cui  tutta
l'attivita'    dell'Amministrazione    e'     istituzionalmente     e
necessariamente finalizzata ad interessi generali - coincidano con la
causa di pubblica utilita'  postulata  dalla  Costituzione  (e  dalla
Convenzione) per procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato,
sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e
utilizzato da  una  pubblica  amministrazione:  e  quindi  la  stessa
situazione di fatto venutasi a creare per effetto  del  comportamento
contra  ius  di  quest'ultima.  E  dall'altro,  richiedendo  che   la
determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo  fine
di legittimarla ex post, peraltro attraverso passaggi  conoscitivi  e
valutativi  tutti  interni  all'apparato  amministrativo,  e  percio'
necessariamente soggettivi. A differenza  dei  "motivi  di  interesse
generale", i quali (Corte costituzionale 95/1966 e 155/1995) "valgono
non solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire
un interesse meramente privato, ma richiedono  anche  che  esso  miri
alla soddisfazione di effettive e specifiche esigenze  rilevanti  per
la comunita'"; e la cui identificazione deve "rinvenirsi nella stessa
legge che prevede la potesta' ablatoria;  come  anche  in  essa  puo'
trovarsi definita  soltanto  la  fattispecie  astratta  (a  mezzo  di
clausola generale).." che ne implica poi l'individuazione in concreto
nell'ambito  di  un  procedimento  normativamente  predeterminato  (e
partecipato). Allorche', dunque, "il  programma  da  realizzare"  sia
ancora nella fase progettuale (comportante le  opportune  valutazioni
relative  a  collocazione,  caratteristiche  tecniche,   convenienza,
tutela ambientale ecc), precedente alla concreta lesione del  diritto
dominicale (Corte  costituzionale  90/1966  citata):  soltanto  cosi'
potendosi garantire che il relativo  sacrificio  consegua  il  giusto
equilibrio con le reali esigenze della collettivita',  e  configurare
il comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio
di legalita' non solo formale (cfr. art. 97 Cost. ed 1 Prot.  All.  1
alla CEDU). 
    Ma il rapporto di implicazione logica e  giuridica  tra  la  fase
della dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento  coattivo,
assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente  alla
Legge fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde  evitare
che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla  sorte  dei  beni
espropriandi,  e  nel  contempo,  che  si  eseguano  opere  non  piu'
rispondenti, per il decorso  del  tempo  all'interesse  generale,  ha
attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia  fondamentale,  oggi
rispondente al principio di legalita' e  tipicita'  del  procedimento
ablativo, disponendo nel comma 1 che nel  provvedimento  dichiarativo
della pubblica utilita'  dell'opera  devono  essere  fissati  quattro
termini  (e  cioe'  quelli  di   inizio   e   di   compimento   della
espropriazione  e  dei  lavori);  e  stabilendo,  nel  comma  3,  che
"trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica  utilita'  diventa
inefficace". 
    Sopravvenuta la  Costituzione,  questa  disposizione  ha  assunto
rilevanza  costituzionale,  essendo  stata  collegata   dalla   Corte
costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992)  direttamente  al
principio che, siccome la proprieta' privata puo' essere  espropriata
esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 Cost., comma
3),  tale  possibilita'  e'   connaturata   solo   all'esigenza   che
l'espropriazione avvenga per esigenze  effettive  e  specifiche:  che
valgano, cioe', a far  considerare  indispensabile  e  tempestivo  il
sacrificio  della  proprieta'  privata  in  quel  momento;   con   la
conseguenza che cio'  non  si  verificherebbe  ove  il  trasferimento
coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma  attualmente
ipotetica utilizzazione al servizio di specifici  fini  di  interesse
generale, ma privi di attualita' e di concretezza. 
    Da tale quadro  normativo,  la  giurisprudenza  tanto  ordinaria,
quanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute  e
non derogabili: 
      A) che  "la  fissazione  di  tali  termini  costituisce  regola
indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo" (Cosi'
Corte Costit. 257/1988); 
      B)  che  la  loro  omessa  fissazione  comporta  la   giuridica
inesistenza della dichiarazione di  p.u.  con  tutte  le  conseguenze
sopra evidenziate: prima fra tutte che tale situazione non e'  idonea
a far sorgere il potere espropriativo e, dunque,  ad  affievolire  il
diritto soggettivo di proprieta' sui beni espropriandi;  e  determina
una situazione di carenza di potere che  incide  (negativamente)  sui
successivi atti e comportamenti della procedura  ablativa,  piu'  non
consentendone l'adozione; 
      C) che tale indicazione (ove  non  apposta  direttamente  dalla
legge) deve avvenire nello stesso atto avente  "ex  lege"  valore  di
dichiarazione di pubblica utilita' dell'opera, e quindi nell'atto con
cui e' approvato il progetto di opera pubblica; ed il relativo  onere
non puo' essere assolto mediante atti successivi, seppure in forma di
convalida  e  di  sanatoria,   idonei   ad   eliminare   l'intrinseca
illegittimita' del primo atto; 
      D) che scaduti inutilmente i termini finali di cui all'art. 13,
si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento  il
procedimento ablativo; che puo' soltanto ricominciare  attraverso  la
rinnovazione della dichiarazione di p.u. necessariamente richiedente,
come  prescritto  dalla  norma,  lo   svolgimento   ab   inizio   del
procedimento amministrativo strumentale di cui si e' detto, e  quindi
il  compimento  ex  novo  di  tutte  le  formalita'   previste   come
indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel  progetto,  con
la considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi),  cosi'
come evoluta nelle more. 
    Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende
riunire  sia  gli  effetti  espropriativi,  sia  la  valutazione  del
pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai  termini  dell'art.
13 e' destinata a non trovare spazio, ne' tutela effettiva, in quanto
la  norma  non  indica  alcun  limite  temporale   entro   il   quale
l'Amministrazione  debba  esercitare  il  relativo  potere:   percio'
esponendo  il   diritto   dominicale   su   di   esso   al   pericolo
dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di  tempo;
ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost.,  avanti
manifestati,  per  il  regime  discriminatorio   provocato   tra   il
procedimento ordinario in cui l'esposizione e' temporalmente limitata
all'efficacia  della  dichiarazione  di  pubblica   utilita'   (nella
disciplina,  del  T.U.,  anche  a  quella  del  vincolo   preordinato
all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine
titulo e' sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione. 
    6 - La  nuova  operazione  sanante  -  in  tutte  le  fattispecie
individuate dall'art. 42-bis, compresa quella  di  utilizzazione  del
bene senza titolo "in assenza di un valido ed efficace  provvedimento
di esproprio" - presenta poi, numerosi  ed  insuperabili  profili  di
criticita' - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme  della
CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.). 
    La quale, del resto, come gia' rilevato dalla Corte di Cassazione
(Cass. 18239/2005; 20543/2008), si e' gia' pronunciata in tali sensi,
esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art.  43  T.U.,
interamente  riprodotto  nell'impianto  del  meccanismo   traslativo,
dall'attuale art. 42-bis. Il suo  fulcro  qualificante  e'  ravvisato
infatti nella prospettiva che la restituzione  dell'immobile  privato
utilizzato per scopi di p.i., secondo le direttine della Convenzione,
possa essere evitata soltanto a seguito di  un  legittimo  e  formale
provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e
che deve, a sua  volta,  trovare  giustificazione  non  piu'  in  una
situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale,  ma  in  una
previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti  presupposti
e' apparsa al legislatore necessaria e nel contempo  sufficiente  per
garantire il "rispetto dei parametri imposti dalla  Corte  europea  e
dai   principi   costituzionali":   anche   per   l'obbligo   imposto
all'autorita'  amministrativa   di   "valutare   gli   interessi   in
conflitto", e percio' di  "mantenere  il  giusto  equilibrio  tra  le
esigenze dell'interesse generale della  comunita'  e  gli  imperativi
della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo". 
    Il  quadro  normativo   prospettato   dalla   Corte   EDU   nella
interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima
afferma il  principio  generale  di  rispetto  della  proprieta';  la
seconda consente la privazione della proprieta' solo alle  condizioni
indicate; la terza riconosce agli Stati  il  potere  di  disciplinare
l'uso dei beni in conformita' all'interesse generale  -  muove  dalla
regola che, per determinare se vi sia stata privazione  dei  beni  ai
sensi della seconda norma, occorre non solo  verificare  se  vi  sono
stati spossessamene o espropriazione formale, ma anche guardare al di
la'  delle  apparenze  ed  analizzare  la  realta'   della   concreta
fattispecie, onde stabilire se essa equivalga ad un'espropriazione di
fatto o indiretta, atteso che  la  CEDU  mira  a  proteggere  diritti
"concreti ed effettivi" (tra le tante, Papamichalopoulos  c.  Grecia,
24 giugno 1993; Acciardi  c.  Italia,  19  maggio  2005;  Cadetta  c.
Italia, 15 luglio 2005; De  Angelis  c.  Italia,  21  dicembre  2006;
Pasculli c. Italia, 4  dicembre  2007).  Per  cui  ha  dichiarato  in
radicale    contrasto    con    la    Convenzione    il     principio
dell'"espropriazione indiretta", con la quale il trasferimento  della
proprieta' del bene dal privato alla p.a.  avviene  in  virtu'  della
constatazione della situazione di illegalita' o  illiceita'  commessa
dalla stessa  Amministrazione,  con  l'effetto  di  convalidarla,  di
consentire a quest'ultima di trarne  vantaggio,  nonche'  di  passare
oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il  rischio
di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati. 
    E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente  inserito
non  soltanto  l'ipotesi   corrispondente   alla   c.d.   occupazione
espropriativa, ma tutte  indistintamente  le  fattispecie  (sent.  19
maggio  2005,  Acciardi)   di   "perdita   di   ogni   disponibilita'
dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e  con
conseguenze  assai  gravi  per  il  proprietario  che   subisce   una
espropriazione di fatto incompatibile con il suo diritto al  rispetto
dei propri beni": ritenendo ininfluente "che  una  tale  vicenda  sia
giustificata soltanto dalla  giurisprudenza,  ovvero  sia  consentita
mediante disposizioni legislative, come e' avvenuto con la l. n.  458
del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U.,  in  quanto
il principio di legalita' non  significa  affatto  esistenza  di  una
norma  di  legge  che  consenta  l'espropriazione  indiretta,  bensi'
esistenza di norme giuridiche interne  sufficientemente  accessibili,
precise e prevedibili". Con la conseguenza che il  supporto  di  "una
base  legale  non  e'  sufficiente  a  soddisfare  al  principio   di
legalita'"  e  che  "e'  utile  porre  particolare  attenzione  sulla
questione della  qualita'  della  legge"  (sent.  Acciardi  cit.  75;
Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che  al
nuovo  istituto  del  T.U.  i  giudici  di  Strasburgo  hanno   mosso
l'addebito  di  non  aver  neppure  escluso,  come  aveva  fatto   la
giurisprudenza  ordinaria,  che  l'espropriazione  indiretta  potesse
applicarsi quando la  dichiarazione  di  p.u.  sia  stata  annullata,
avendo previsto "che anche in assenza  della  dichiarazione  di  p.u.
qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio  pubblico,  se
il giudice  decide  di  non  ordinare  la  restituzione  del  terreno
occupato e trasformato dall'amministrazione"  (CEDU,  Sciarrotta,  12
gennaio 2006; Genovese, 2 febbraio 2006;  Serrao,  13  ottobre  2005;
Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S. Cerro e/Italia, cit.  par.
76-80). 
    In tale ottica diviene del tutto indifferente  per  escludere  la
ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto al
rispetto dei propri beni  e  ripristinare  la  legalita',  l'adozione
postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti,  perche'  il
requisito della legalita' secondo  la  Corte  Edu  non  permette  "in
generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo
irreversibilmente,  di  tal  maniera  da  considerarlo  acquisito  al
patrimonio  pubblico,  senza  che  contestualmente  un  provvedimento
formale  che  dichiari  il  trasferimento  di  proprieta'  sia  stato
emanato" (Cfr. in particolare decisioni 17 maggio 2005, Pasculli;  19
maggio 2005, Acciardi e  Campagna;  11  ottobre  2005,  La  Rosa;  11
ottobre 2005 Chiro'; 12 ottobre  2005,  Scordino;  13  ottobre  2005,
Serrao;  7  novembre  2005,  Istituto  diocesano;  12  gennaio  2006,
Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De  Sciscio;  9
gennaio 2009, Sotira).  Il  contrasto  con  la  Convenzione  dipende,
allora, dal riconoscimento nel  nostro  ordinamento -"en  vertu  d'un
principe jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme  l'article  43" -
di effetti traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente
fattuale di un  terreno  senza  che  sussista  un  atto  formale  che
dichiari il trasferimento della proprieta' "intervenant au plus  tard
au  moment"  in  cui  il  proprietario   ha   perduto   ogni   potere
sull'immobile: cosi' come, del resto, oltre  un  secolo  prima  aveva
richiesto la legge n. 2359 del 1865, art. 50. Percio'  inducendola  a
concludere che ogni forma di espropriazione indiretta  in  ogni  caso
"n'a pas pour effet de regulariser la situation denoncee", ne'  tanto
meno quello di costituire  "un'alternativa  ad  un'espropriazione  in
buona e dovuta forma" (CEDU, 4, 15 novembre  2005,  La  Rosa;  3,  12
gennaio 2006, Sciarrotta, 1, 23 febbraio 2006, Immobiliare Certo). 
    La  "legalizzazione   dell'illegale"   non   e'   conclusivamente
consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di
legge, ne' tanto meno ad  un  provvedimento  amministrativo  di  essa
attuativo, quale e' quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci,
22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio  2006;  De  Sciscio,  20  aprile
2006;  Dominici,  15  febbraio  2006;  Serrao,   13   gennaio   2006;
Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005;  Scordino,  17
maggio 2005); ed in termini non dissimili si e' espressa anche  Corte
costituzionale n. 293/2010, per la quale "non e' affatto  sicuro  che
la  mera  trasposizione  in  legge  di  un  istituto,   in   astratto
suscettibile   di   perpetuare   le   stesse   negative   conseguenze
dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere
il grave vulnus al principio di legalita'". Sicche' il  ritorno  alla
via legale, come specificamente  suggerito  dalla  stessa  Corte  Edu
(sent. 6 marzo 2007, Scordino 3,  cfr.  anche,  I,  13  luglio  2006,
Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni)  allo  Stato  italiano  onde  evitare
ulteriori condanne, deve essere perseguito non regolarizzando ex post
occupazioni gia' illegittime, bensi', anzitutto, in  via  preventiva,
consentendo alla p.a. di immettersi nella proprieta' privata soltanto
se - e dopocche' - abbia gia'  conseguito  un  legittimo  titolo  che
autorizzi l'ingerenza; ed in  caso  in  cui  cio'  non  sia  avvenuto
"eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e
per principio la restituzione del terreno", peraltro "in analogia con
altri ordinamenti europei" (Corte Cost. 293/2010 cit.). 
    Il principio di legalita' non e', infine, recuperabile  in  forza
dei bilanciamenti e  delle  comparazioni  tra  interessi  pubblici  e
privati devoluti dalla norma all'autorita' amministrativa che dispone
l'acquisizione:  avendo  la  Corte  EDU  affermato  fin  dalla   nota
decisione Belvedere - Alberghiera .del 30 maggio  2000,  nella  quale
l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva  dato
precedenza all'interesse pubblico specifico della collettivita'  alla
realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur
mancante di dichiarazione di  p.u.  perche'  annullata  dallo  stesso
giudice  amministrativo),  che  la  necessita'  di   esaminare   tale
questione e' inattuabile  in  caso  di  ingerenza  illegittima  nella
proprieta'  (in  cui  la  Convenzione  privilegia   quello   privato,
postulandone comunque la reintegrazione), ma "puo' porsi  soltanto  a
condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio  di
legalita' e non sia  risultata  arbitraria".  Sicche'  ha  egualmente
condannato lo Stato italiano non certamente  per  l'assenza  (allora)
nell'ordinamento interno  di  una  norma  con  valore  sanante  della
illegittimita' della procedura ablativa, ma perche' "la decisione del
Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilita'  di
ottenere  la  restituzione  del   suo   terreno....che   per   essere
compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa
di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla  legge  e  dai
principi di diritto internazionale"  (  54  e  55;  nonche'  Ucci  c.
Italia,  22  giugno  2006).  E  d'altra  parte,  poiche'   la   norma
attribuisce ad uno dei due portatori dell'interesse  in  conflitto  -
ovvero alla  P.A.  responsabile  dell'illecito  ed  interessata  alla
acquisizione dell'immobile - il potere  di  comparare  gli  interessi
suddetti (CEDU, 3, 9 febbraio 2006, Prenna), e, quindi la  scelta  di
restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile,
il suo assetto reale non dipende piu' (neppure) dalla sua (oggettiva)
trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale indisponibile,  ma
viene affidato esclusivamente alla  volonta'  dell'Amministrazione  -
per quanto detto, senza neppure limiti temporali -  di  ricorrere  al
nuovo istituto; nonche', in caso di impugnazione del provvedimento di
acquisizione,  alla   pronuncia   del   giudice   amministrativo   di
consentirne o escluderne la restituzione: con conseguente  incertezza
ed imprevedibilita' della situazione giuridica fino al momento  della
sentenza definitiva. Il che ha indotto  i  giudici  di  Strasburgo  a
rilevare, con la piu'  qualificata  dottrina,  che  con  tale  regime
scompare anche quel minimo di prevedibilita' che un sistema normativo
e' tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneita' della  base  legale  su
cui  si  fonda  la  consentita  compromissione  della  proprieta'  ad
assicurare  il  sufficiente  grado  di   certezza   postulato   dalla
Convenzione  attraverso  "l'esistenza  di  norme  giuridiche  interne
sufficientemente accessibili, precise e dagli effetti prevedibili"; e
rende l'istituto nuovamente incompatibile  con  la  Convenzione  "non
potendosi escludere  il  rischio  di  un  risultato  imprevedibile  o
arbitrario" (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De Caterina; 20 aprile 2006, De
Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese). 
    La Corte europea, pur non escludendo che in  materia  civile  una
nuova normativa possa avere efficacia retroattiva,  ha  ripetutamente
considerato lecita l'applicazione dello  ius  superveniens  in  causa
soltanto in presenza di  "imperieux  motifs  d'interet  general";  ed
affermato che in ogni altro caso essa si  concreta  nella  violazione
del principio di legalita' nonche' del diritto ad  un  processo  equo
perche'  consente  al  potere   legislativo   di   introdurre   nuove
disposizioni specificamente dirette  ad  influire  sull'esito  di  un
giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica),
ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale
la  controparte  poteva  legittimamente  aspirare   al   momento   di
introduzione della lite  (cfr.  sentenza  della  Grande  Chambre,  28
ottobre 1999, Zielinski; nonche' Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003,
proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio  2004;
nonche' Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78). 
    Questa situazione -  gia'  posta  in  evidenza  dalla  Cassazione
vigente l'ncostituzionale art. 43 T.U. (Cass. 21867/2011; 20543/2008;
sez. un. 26732/2007) - si e' riproposta proprio per effetto dell'art.
42-bis, il quale, malgrado la precisazione del primo comma che l'atto
di acquisizione e' destinato a non operare retroattivamente  (rivolta
a rispondere ad uno dei rilievi espressi da Corte  costituzionale  n.
293 del 2010),  con  la  menzionata  disposizione  ha  confermato  la
possibilita'  dell'Amministrazione  di  utilizzare  il  provvedimento
sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua  entrata  in  vigore  ed
anche  se  vi  e'  gia'  stato  un  provvedimento   di   acquisizione
successivamente ritirato o annullato: in conformita' del  resto  alla
finalita' di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via
di uscita dalle situazioni di illegalita' venutesi a  verificare  nel
corso degli anni (anche pregressi). 
    7 - Infine,  neanche  l'indennizzo/risarcimento  stabilito  quale
corrispettivo  dell'acquisizione   risulta   esente   da   dubbi   di
legittimita' costituzionale, in quanto l'art.  42-bis,  comma  3,  ne
fissa i seguenti parametri: "Salvi i casi in cui  la  legge  disponga
altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale  di  cui  al
comma 1 e' determinato in misura corrispondente al valore venale  del
bene utilizzato per scopi di pubblica utilita'  e,  se  l'occupazione
riguarda  un  terreno  edificabile,  sulla  base  delle  disposizioni
dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7". 
    Sennonche'  la  Corte  costituzionale   (sent.   369/1996),   nel
dichiarare l'incostituzionalita' della legge n. 549 del 1995, art. 1,
comma 65, che aveva equiparato l'entita' del risarcimento  del  danno
da occupazione acquisitiva a  quella  dell'indennizzo  espropriativo,
aveva affermato che "... e' innegabile, in primo luogo, la violazione
che ne  deriva  del  precetto  di  eguaglianza,  stante  la  radicale
diversita'  strutturale  e  funzionale   delle   obbligazioni   cosi'
comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo - obbligazioneex
lege per atto legittimo - costituisce  il  punto  di  equilibrio  tra
interesse pubblico alla  realizzazione  dell'opera  e  interesse  del
privato alla conservazione del bene, la  misura  del  risarcimento  -
obbligazioneex delicto - deve realizzare il  diverso  equilibrio  tra
l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera gia' realizzata e  la
reazione  dell'ordinamento  a  tutela  della  legalita'  violata  per
effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato.  E
quindi sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca  (ex  art.  3
Cost.), poiche' nella occupazione appropriativa l'interesse  pubblico
e' gia' essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene
e dalla  conservazione  dell'opera  pubblica,  la  parificazione  del
quantum risarcitorio alla misura dell'indennita' si prospetta come un
di  piu'  che  sbilancia  il  contemperamento  tra   i   contrapposti
interessi,  pubblico  e  privato,  in  eccessivo  favore  del  primo"
(considerazioni analoghe  si  rinvengono  nelle  decisioni  442/1993;
188/1995; 148/1999; 349/2007). Nel caso, i  ricordati  principi  sono
stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto
indennizzo debba essere sempre  e  comunque  commisurato  "al  valore
venale del bene utilizzato", il legislatore: 
      a) attribuisce ai proprietari interessati da  un  provvedimento
di acquisizione sanante un trattamento deteriore rispetto  a  quelli,
che in mancanza di detto provvedimento sono  ammessi  a  chiedere  la
restituzione dell'immobile insieme al  risarcimento  del  danno,  pur
quando destinatati di una  medesima  occupazione  abusiva  in  radice
(c.d. usurpativa): in quanto soltanto a questi ultimi  e'  consentito
ottenere  l'intero  risarcimento  del  danno  sofferto,  in  base  ai
parametri dell'art. 2043 Cod. Civ. del danno emergente  e  del  lucro
cessante (utili, occasioni e vantaggi che il  proprietario  provi  di
aver perduto dalla mancata disponibilita' del bene: Cass. 14609/2012;
4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983); 
      b) tale trattamento  resta  inferiore  pur  nel  confronto  con
l'espropriazione legittima dello  stesso  immobile,  in  quanto,  ove
avente destinazione edificatoria, non e' riconosciuto  l'aumento  del
10% di cui al T.U., art. 37, comma 2 (non richiamato dalla norma), se
l'accordo di cessione e' stato concluso, se non e' stato concluso per
fatto non imputabile all'espropriato o  se  l'indennita'  provvisoria
attualizzata e' inferiore all'80% di quella definitiva:  e  quindi  a
maggior  ragione  se  nessuna  indennita'  viene  offerta,  come   e'
peculiare del procedimento di  cui  all'art.  42-bis.  Mentre  se  il
terreno e' agricolo non e' applicabile il precedente art. 40, comma 1
che impone di tener conto (Cfr. Corte costituzionale 181/2011)  delle
colture  effettivamente  praticate  sul  fondo  e  "del  valore   dei
manufatti  edilizi  legittimamente  realizzati,  anche  in  relazione
all'esercizio dell'azienda agricola" (Cass.  23967/2010;  10217/2009;
11782/2007;  4848/1998):  nel  caso  specificamente   richiesto   dai
ricorrenti titolari di un'azienda agricola,  che  in  conseguenza  di
un'espropriazione  rituale  avrebbero  avuto  diritto  all'inclusione
nell'indennita' anche del relativo pregiudizio; 
      e) incorre in una disparita'  piu'  palese  con  il  regime  di
quest'ultima   laddove   non   considera   affatto    l'ipotesi    di
espropriazione  parziale;  e  non  consente  di  tener  conto   della
diminuzione di valore del fondo  (residuo,  invece  indennizzata  fin
dalla legge n. 2359  del  1865,  art.  40  (anche  nelle  ipotesi  di
occupazione appropriativa: Cass.  8197/2012;  591/2008;  24435/2006),
ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; 
      d) ha trasformato  il  precedente  regime  risarcitorio  in  un
indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura
di debito di valuta non automaticamente soggetto  alla  rivalutazione
monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A differenza del risarcimento da
espropriazione e/o occupazione illegittime,  costituente  credito  di
valore, che deve essere liquidato alla stregua  dei  valori  monetari
corrispondenti  al  momento  della  relativa  pronuncia,  sicche'  il
giudice deve tenere conto della svalutazione  monetaria  sopravvenuta
fino alla decisione, anche di  ufficio,  a  prescindere  dalla  prova
della  sussistenza  di  uno  specifico  pregiudizio  dell'interessato
dipendente  dal  mancato  tempestivo  conseguimento   dell'indennizzo
medesimo (tra tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004). 
    Tale  natura  risarcitoria  sembra  invece  mantenuta   dall'art.
42-bis, comma 3, al  corrispettivo  per  il  periodo  di  occupazione
illegittima antecedente al provvedimento  di  acquisizione  ("Per  il
periodo  di  occupazione  senza  titolo   e'   computato   a   titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova  di
una diversa entita' del danno, l'interesse del cinque per cento annuo
sul valore determinato ai sensi del  presente  comma):  tuttavia  pur
esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a  quelli
cui e' commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione  temporanea
dell'immobile. 
    In quanto: a) il parametro base e' costituito dall'interesse  del
cinque per cento annuo sul valore  venale  dell'immobile  stimato  ai
fini dell'indennizzo, percio' corrispondente a  circa  1/20  del  suo
valore  annuo.  Laddove  l'art.  50  del  T.U.,   recependo   analoga
disposizione  contenuta  nella  legge  n.  865  del  1971,  art.   20
stabilisce in tutti i casi di occupazione legittima  di  un  immobile
che "e' dovuta al proprietario una indennita' per ogni anno  pari  ad
un  dodicesimo  di  quanto  sarebbe  dovuto  nel  caso  di  esproprio
dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennita' pari ad
un  dodicesimo  di  quella  annua":  percio'  corrispondente  ad  una
redditivita'   predeterminata   piu'   elevata   misura   percentuale
dell'8,33% all'anno sul valore venale dell'immobile; b)  il  richiamo
all'indennita' di espropriazione consente altresi' l'applicazione del
principio consolidato nella  giurisprudenza  di  legittimita'  (Cass.
21352/2004; sez. un. 10502/2012;  24303/2010),  che  nell'ipotesi  di
espropriazione  parziale  la  percentuale  suddetta  vada   calcolata
sull'indennita' di espropriazione computata tenendo conto  anche  del
decremento di valore subito  dalla  parte  dell'immobile  rimasta  in
proprieta' dell'espropriato: invece  non  autorizzato  dal  parametro
rigido contenuto nell'art. 42 bis, comma 3. 
    Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma  non
consente di escludere il rilievo piu' volte rivolto dalla  Corte  EDU
al  legislatore  nazionale,  che  pure  il  meccanismo  riduttivo  di
determinazione  dell'indennizzo/risarcimento  da  occupazione   senza
titolo  consente  all'espropriante,  che  omette   di   svolgere   il
procedimento previsto dalla legge,  di  avvantaggiarsi  ulteriormente
del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una
porzione del ristoro dovuto nel  caso  di  occupazione/espropriazione
legittime: percio' non  favorendo  la  buona  amministrazione  e  non
contribuendo a prevenire episodi di illegalita'. 
    Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente
infondate le questioni di legittimita' costituzionale riguardanti  il
D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42-bis: 
      per  contrasto  con  il  precetto  di  eguaglianza  nonche'  di
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost. sotto ciascuno  dei
diversi profili di cui in motivazione,  involgenti  anche  l'art.  24
Cost.; 
      per contrasto con i precetti e le garanzie posti  dall'art.  42
Cost. a tutela della proprieta' privata, nonche' con il principio  di
legalita' dell'azione amministrativa contenuto negli artt. 97  e  113
Cost.: sotto i diversi profili di cui in motivazione; 
      per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1,  anche  alla  luce
dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1^ prot. add. della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sotto i  diversi
profili di cui in motivazione,  con  cui  se  ne  e'  evidenziata  la
disciplina lesiva del diritto di proprieta', nonche' del  diritto  al
rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali.